Vedrò Singapore? | Piero Chiara

Vedrò Singapore? | Piero Chiara

Vedrò Singapore? è un romanzo che, con acuta ironia e soffuso cinismo, fotografa la provincia italiana dei primi anni 30 del XX secolo.

Il fascismo è un’ombra che si impossessa di territori ancora “austriacanti” se non sloveni, tra le preture di Pontebba, Aidussina, disegnando la vita tra i caffè, gli amori, il bigliardo di Cividale. Udine, Venezia, Trieste, monumentali e seducenti, fanno da spettatrici ai movimenti del protagonista.

Egli, il protagonista, è poco più che ventenne quando vince, involontariamente, il concorso da “volontario aiutante di cancelleria”: quando, partendo dalle onde del Lago Maggiore, si lascia travolgere dalla corruzione, dall’utilitarismo, dalla mediocrità di personaggi offertigli dalla sorte a casaccio:

personaggi definiti per professione, per ruolo sociale più che per il lato umano.

Anonimo e quindi ambiguo uomo comune, il protagonista a tratti perde coscienza di sé, l’identità, talvolta il proprio passato. Dapprima spettatore, quindi voglioso di gestire al meglio la primavera della vita, studia le mosse per passare un buon autunno, una vecchiaia tranquilla. Pazzia simulata e sguardo ribelle diventano romantica ricerca d’incanto, un viaggio d’amore.

Vedrà Singapore?

P. S. | Post scriptum istantaneo

Chi è Piero Chiara?

Piero Chiara (Luino, 1913 – Varese, 1986). Scrittore italiano tra i più noti del XX secolo. Oltre a Vedrò Singapore?, il suo capolavoro è La stanza del vescovo. Studioso di Giacomo Casanova, nel 1977 pubblica Il vero Casanova. I suoi romanzi sono stati spesso trasformati in film.  In suo onore, il concorso letterario Premio Chiara.

Oltre le 250 parole… la citazione istantanea:

Piero Chiara, Vedrò Singapore?, frasi:

«Di quello che ero stato e che non ricordavo, solo nella mia valigia restava qualche traccia. Il suo contenuto poteva offrirmi dei punti di riferimento

«Agli smarrimenti e alle smemoratezze ero così abituato, che invece di affliggermene me ne compiacevo, come di un secondo stato della mia esistenza, dentro il quale mi era possibile ogni tanto riposare dal primo stato, cioè dalla piena o quasi piena coscienza, che spesso mi opprimeva al pari di un abito troppo pesante o addirittura di una corazza